L’immagine più emblematica di Cyberpunk 2077 è arrivata praticamente alla chiusura del gioco, durante il finale da nomadi. Mentre V e Panam, una coppia nella mia partita, stanno fuggendo dai confini di Night City a bordo di un carro armato, finiscono in una tempesta di sabbia che piano piano oscura completamente la visuale. Qualche secondo di confusione e l’immagine inizia a sfumare verso il bianco. Il mondo di gioco sembra non esistere più, ma in realtà qualcosa di ben visibile è rimasto: l’icona gialla con contorni neri che indica il prossimo obiettivo. Non vediamo più niente. Non si capisce nemmeno dove siamo. Ma possiamo seguire quella sacra icona che fa tutta la differenza del mondo tra la vita e la morte e che c’è stata accanto per più di settanta ore. Non possiamo che arrenderci: è lei la vera protagonsita, non V, non Silverhand, non la città di Night City.
Fondamentalmente Cyberpunk 2077 è un gioco in cui si seguono icone. Si seguono icone per trovare una missione da svolgere. Si seguono icone per raggiungere un obiettivo da uccidere. Si seguono icone per far proseguire la storia principale. Si seguono icone semplicemente per non perdersi in una città fin troppo labirintica per poter essere vissuta da soli, senza cioè un navigatore satellitare smart che ci dica sempre dove andare e, a volte, anche cosa fare e dove guardare. Dobbiamo trovare un computer da manomettere dentro a un luogo che non conosciamo? Tranquilli, perché c’è l’icona ad aiutarci a individuarlo. Guardando la mini mappa, cui si dedicano tantissime attenzioni, possiamo vedere anche qual è il percorso da seguire, se proprio non abbiamo alcuna voglia di guardarci intorno. Insomma, è il golden path che ci viene spiattellato in faccia senza nessun ritegno. Quello che facciamo è di fatto seguire degli ordini per rimpinzarci il più possibile di punti esperienza e di oggetti. La solita bulimia capitalista da looter shooter, solo che questo dovrebbe essere più un gioco di ruolo d'azione ambientato in un universo cyberpunk, almeno sulla carta. La verità è che missione dopo missione diventa sempre più chiaro che non abbiamo nessun arbitrio su quello che ci accade intorno, a parte nell’individuazione di possibili percorsi alternativi. Il personaggio che abbiamo costruito esiste praticamente solo in funzione di come elimina i nemici, con l'ipocrisia aggiunta di distinguere gli attacchi letali da quelli non letali.
Certo, ci sono delle buone storie che ci vengono raccontate di tanto in tanto da alcune missioni secondarie. C'è Keanu Reeves che fa la star per l'intera avventura. Ci sono dialoghi ben scritti e quant'altro. Solo che anche la narrazione ha un difetto strutturale che viene ben espresso dalla missione in cui dobbiamo trovare delle persone rapite da un serial killer. Il tipo viene descritto come completamente folle e autore di crimini orrendi. Il giudizio morale sul suo operato è abbastanza chiaro, pur al netto del tentativo di ricostruirne la psicologia. Il problema di fondo è che per arrivare alla sua fattoria sono passato sopra un paio di persone e poi sono scappato dalla polizia (oltretutto mentre ero insieme a un ex poliziotto). Mentre mi godevo la fuga, ho pensato che dall'inizio del gioco avevo investito molta altra gente senza pormi minimamente il problema di quello che stavo facendo. In un caso aveva anche scelto volontariamente di investire una persona, solo per scoprire se era possibile farlo. Spesso avevo usato i miei poteri da netrunner per eliminare dei teppisti e prendere il loro bottino. Facile come puntarli, lanciare un Contagio, dopo aver violato il loro protocollo (per fare più male, non per altro), e aspettare che finissero a terra per poi fare lo sciacallo. In altri casi avevo estratto la katana per tagliare delle teste a dei corpi solo per il gusto di farlo. Quando il gioco mi ha chiesto sostanzialmente di condividere il giudizio morale degli autori della quest sul serial killer, di gente ne avevo già ammazzata parecchia, molta più di lui, e senza alcuna conseguenza in termini di reazioni del mondo di gioco, ossia di giudizio morale delle persone virtuali con cui avevo interagito. Ecco, probabilmente un tempo non ci avrei fatto caso, ma oggi che un titolo come Cyberpunk 2077, che l'unica libertà che concede davvero è quella di decidere della vita e della morte di una massa informe di PG, mi chieda di prendere posizioni morali su qualcuno che uccide a causa di un passato traumatico (così viene caratterizzato il serial killer) mi appare come paradossale e, francamente, ridicolo... e l'esperienza in sé è piena di momenti in cui siamo chiamati a giudicare.
Alla fine non è nemmeno così difficile lasciarsi coinvolgere, ma lo si fa per i motivi sbagliati, ossia quelli legati alle meccaniche più superficiali, tra sfilate di moda, auto e appartamenti da acquistare di nessuna utilità reale e vari extra che vanno più a intaccare la solidità della rappresentazione che ad arricchirla. Certo, messi tutti insieme aiutano ad arrivare alla fine, solo che, una volta conclusa l'esperienza, mi sono reso conto che Night City, titanica, bellissima, stratificata come nessun'altra città videoludica, se n'è stata per tutto il tempo lì a fare da scenografia morta a una storia che quasi non la riguardava, diventando il più deludente dei personaggi, quello che rimane per tutto il tempo poggiato alla colonna, in attesa di chissà cosa. Certo, offre dei momenti descrittivi notevoli, ma si tiene educatamente ancorata alla sua funzione estetica, senza farsi mai avanti per imporre i suoi temi. C’è rappresentazione della povertà, c’è rappresentazione della ricchezza, ma è tutto usato come se fosse il poster di un operaio sporco di catrame appeso nella stanza di un ricco imprenditore. C’è aderenza, ma non c’è conseguenza, c’è frase, ma senza discorso. A ben pensarci rappresenta benissimo Cyberpunk 2077, ossia la contraddizione del suo voler essere da una parte opera d'arte pregna di significati e dall'altra un'esperienza di gioco per tutti, fallendo in entrambi i casi.
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