Raccontava un mio professore di Metodologia e critica del teatro che il primo critico della storia nacque quando il primo poeta della storia si erse su di un sasso per recitare in pubblico la prima poesia della storia. Il critico era quello che fischiava. Naturalmente si trattava di una semplificazione, più che altro di una battuta fatta per stemperare la lezione, ma nascondeva comunque un nucleo di verità che non può essere eluso: il testo critico è, essenzialmente, un testo parassita. Un costrutto che esiste come ombra di un altro testo, espressione di un certo sistema di valori, a cui succhia la linfa vitale, senza il quale perderebbe completamente di significato, rimanendo per la gran parte oscuro. Qualcosa di quasi indecifrabile. Il critico vive riflesso nelle opere di cui parla, di cui idealmente deve cercare di garantire la sopravvivenza, se non vuole sparire anch’egli. Se l’opera in sé è un discorso in prima persona fatto da un autore, per parafrasare Jacques Rivette, allora il testo critico non può che essere concettualmente in terza persona e può brillare solo lì dove riesca a illuminare il più possibile l’opera di partenza.
La critica ha dei limiti umani e non può che partire “dai
sentimenti, dai piaceri o dai fastidi provati personalmente a contatto con
un’opera”, come scriveva il critico André Bazin sui Cahiers du cinéma
nell’aprile del 1957. Lo stesso però considerava questo passaggio una
costrizione, sicuramente necessaria, ineludibile, ma non definitiva. Ossia:
l’impressione personale avuta da un’opera non può essere la gabbia in cui
intrappolare la critica della stessa, che in questo modo diventa
autoreferenziale e presuntuosa, al punto da provare a scavalcare e, in un certo
modo, uccidere il suo oggetto perché “stabilisce a priori la superiorità del
gusto del critico su quello dell’autore”. Allo stesso tempo la pretesa di
oggettività di chi pensa che basti applicare una griglia critica a un’opera è
foriera di un grosso errore di fondo, perché nega completamente il ruolo del
gusto, risultando arida.
Bazin innestò questo suo discorso in una più ampia
riflessione collettiva sulla cosiddetta politica degli autori, affermata
proprio dai critici (alcuni diventati poi anche autori) fondatori dei Cahiers.
A noi può tornare comodo perché ogni volta che si parla di critica, il mondo
videoludico sembra annaspare, come se gli mancassero dei riferimenti culturali
da cui attingere. Eppure è facile riconoscere entrambe le tendenze in
moltissimi dei testi critici che affollano siti e pubblicazioni specializzate,
che oscillano tra la pretesa di schematizzazione del valore del videogioco
entro determinati confini oggettivi, stabiliti usando una griglia di
valutazione ormai completamente inadeguata allo scopo (quella basata sul
pantheon: grafica, sonoro, giocabilità, longevità) e la voglia dei critici di
ignorare l’opera di partenza, scrivendo dei testi egotici ed egoriferiti.
Il fischio della storiella di cui sopra ha senso solo perché
prima c’è stato l’atto poetico. Inoltre ha valore nel momento in cui chi sta
intorno al critico improvvisato, poeta compreso, gliene dà uno. Quindi ha
importanza nel momento in cui a chi ha fischiato viene riconosciuto un certo
ruolo sociale. La forza (o la debolezza) del testo critico nasce dal dialogo
costante tra il critico e i suoi fruitori di riferimento, che vanno a
corrispondere ai fruitori, o ai potenziali fruitori dell’opera stessa, quelli
per cui viene scritto e di cui abbraccia in un certo senso i valori, anche e
soprattutto lì dove prova a indirizzarli.
Difficile dire cosa dovrebbe essere la critica e che competenze dovrebbe avere
un critico, visto che il concetto stesso è cambiato numerose volte nel corso
della storia della cultura umana. Nondimeno è necessaria una base di partenza
riconoscibile, per quanto non assoluta, così da superare la piaga
dell’autoreferenzialità ed entrare nel territorio della consapevolezza. Il
regista francese Francois Truffaut ebbe a dire della critica cinematografica
USA: «Chiunque può diventare critico cinematografico; al candidato non si chiederà
che un decimo delle conoscenze richieste a un critico letterario, musicale o
d’arte. Un regista, oggi, deve accettare l’idea che il suo lavoro potrà essere
giudicato anche da qualcuno che magari non avrà mai visto un film di Murnau».
Se volessimo adattare le sue sferzanti parole alla critica
videoludica, potremmo scrivere, senza paura di dire il falso: «Chiunque può diventare critico videoludico;
al candidato non si chiederà che un decimo delle conoscenze richieste a un
critico cinematografico e un decimo delle conoscenze di un decimo delle
conoscenze richieste a un critico letterario, musicale o d’arte. Uno
sviluppatore, oggi, deve accettare l’idea che il suo lavoro potrà essere
giudicato anche da qualcuno che magari non avrà mai sentito parlare di Atari.»
Cresciuto come critico sui Cahiers du cinéma, Truffaut ha più volte e in più
fasi discusso la figura del critico cinematografico, riconoscendogli un ruolo
fondamentale per lo sviluppo del cinema. Ad esempio nel 1955 scrisse
l’articolo, “I sette peccati capitali della critica”, pubblicato sulla rivista
“Arts”, in cui elencava quelli che secondo lui erano i difetti dei critici
cinematografici francesi, che possiamo riassumere in: scarsa conoscenza della
storia del cinema, sciovinismo, presunzione e mancanza di immaginazione. Anni
più tardi, mostrerà però un maggiore disincanto, riconoscendo nella critica un
solo, grosso limite, che è quello di non avere alcun potere sul pubblico di
massa, ossia di non riuscire a indirizzarlo verso la fruizione di certi film.
In effetti la figura del critico tout court negli ultimi
decenni è stata marginalizzata al punto che alcuni sono arrivati a cantarne la
morte o, addirittura, l’estinzione, accelerata da quella che possiamo definire
una diffusione incontrollata della funzione critica attraverso la rete.
Paradossale, ma non di meno indicativo, il fatto che di tutto questo dibattito
nella discussione odierna sulla critica videoludica non traspaia praticamente
nulla, pur essendo molte delle prese di posizione dei lettori rispetto alla
figura del critico derivate proprio da quella che appare essere una forma di
sfiducia storica, non certo afferente alla sola industria dei videogiochi.
Nonostante l’industria dei videogiochi abbia ormai compiuto
cinquant’anni, ancora non siamo riusciti a distinguere i critici dai teorici e
a dare non tanto una definizione generale, quanto delle coordinate più precise
sul ruolo della critica nel settore. Eppure all’alba dello stesso la funzione
della prima stampa specializzata era chiarissima, tanto da aver contribuito in
modo determinante alla diffusione della cultura videoludica grazie a una
divulgazione molto diretta e, in un certo senso, artigianale.
Non sconvolge che i primi critici, fondamentalmente dei
ragazzi, abbiano impostato il loro lavoro partendo dai dati più evidenti
forniti dai videogiochi, considerando anche i limiti di molti di questi ultimi
in termini strettamente funzionali. Ad esempio parlare di “giocabilità” aveva
senso in un mondo fatto di interfacce spesso poco comprensibili e dalle
funzioni oscure o di risposte anti intuitive degli avatar agli input dei
giocatori, così come non era completamente folle giudicare la “grafica” in
quanto tale, lì dove i videogiochi erano frequentemente delle opere personali,
fatte da singole persone, costrette a volte a crearsi i propri strumenti per
disegnare gli sprite. C’era effettivamente chi era più e chi era meno bravo nel
curare i vari aspetti dello sviluppo, che aveva ancora modalità e tempistiche
umane. Il critico svolgeva quindi la funzione di ponte tra il giocatore e lo
sviluppatore. Poteva farlo perché la voglia tra le parti di incontrarsi era
tanta e il dialogo costante. Certo, c’era una grossa ingenuità di fondo e la
comprensione del medium era ancora agli inizi, ma si procedeva inevitabilmente
a braccio.
Il problema è che da lì ci si è mossi poco e male e, anzi,
alcuni degli aspetti più deleteri della figura del critico, come quello di
presentarsi come un “super giocatore”, ossia uno che, avendo accesso anticipato
a molti giochi può distinguere il bello dal brutto, quindi consigliare o
sconsigliare l’acquisto, si sono in un certo senso incancreniti, soprattutto lì
dove, venuti meno i contatti diretti non mediati con gli sviluppatori, gli
editori si sono maggiormente strutturati e hanno preso un ruolo preminente nei
rapporti di potere che poi sfociano nell’atto critico, con quest’ultimo che ha
assunto una funzione terribilmente stitica nel meccanismo economico che regola
il mercato dei videogiochi, ossia semplicemente quella di andare a contribuire
alla media voto.
A questo punto sarebbe interessante riflettere anche sul
ruolo del videogiocatore nella definizione della funzione critica e di come
molti in realtà non chiedano più del fischio di cui sopra, limitandosi a
pretendere che la critica assecondi il sentimento delle masse verso i singoli
videogiochi, senza la necessità di cambiare o affinare gli strumenti utilizzati
per descrivere gli stessi. Sarebbe anche interessante considerare la
trasformazione di molti critici in imbonitori da streaming lì dove, grazie
all’affermarsi di piattaforme come Twitch, il visivo è subentrato nel discorso
andando a creare delle dinamiche simili a quelle che si ebbero quando i critici
d’arte, cinematografici e letterari iniziarono ad apparire in televisione. Ma
il discorso devierebbe troppo dal suo nucleo originale. L’idea è che è il
critico videoludico trovi una sua dimensione storica e inizi a concepirsi in
modo diverso, assumendosi la responsabilità di guardare con occhio nuovo
all’evoluzione del medium, così da poterlo inquadrare in un contesto più ampio,
lì dove ormai una certa impostazione appare completamente inadeguata a renderne
la complessità.
Articolo apparso originariamente su Frequenza Critica
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