giovedì 20 aprile 2023

La figura del critico videoludico, una discussione quantomai aperta

Raccontava un mio professore di Metodologia e critica del teatro che il primo critico della storia nacque quando il primo poeta della storia si erse su di un sasso per recitare in pubblico la prima poesia della storia. Il critico era quello che fischiava. Naturalmente si trattava di una semplificazione, più che altro di una battuta fatta per stemperare la lezione, ma nascondeva comunque un nucleo di verità che non può essere eluso: il testo critico è, essenzialmente, un testo parassita. Un costrutto che esiste come ombra di un altro testo, espressione di un certo sistema di valori, a cui succhia la linfa vitale, senza il quale perderebbe completamente di significato, rimanendo per la gran parte oscuro. Qualcosa di quasi indecifrabile. Il critico vive riflesso nelle opere di cui parla, di cui idealmente deve cercare di garantire la sopravvivenza, se non vuole sparire anch’egli. Se l’opera in sé è un discorso in prima persona fatto da un autore, per parafrasare Jacques Rivette, allora il testo critico non può che essere concettualmente in terza persona e può brillare solo lì dove riesca a illuminare il più possibile l’opera di partenza.

La critica ha dei limiti umani e non può che partire “dai sentimenti, dai piaceri o dai fastidi provati personalmente a contatto con un’opera”, come scriveva il critico André Bazin sui Cahiers du cinéma nell’aprile del 1957. Lo stesso però considerava questo passaggio una costrizione, sicuramente necessaria, ineludibile, ma non definitiva. Ossia: l’impressione personale avuta da un’opera non può essere la gabbia in cui intrappolare la critica della stessa, che in questo modo diventa autoreferenziale e presuntuosa, al punto da provare a scavalcare e, in un certo modo, uccidere il suo oggetto perché “stabilisce a priori la superiorità del gusto del critico su quello dell’autore”. Allo stesso tempo la pretesa di oggettività di chi pensa che basti applicare una griglia critica a un’opera è foriera di un grosso errore di fondo, perché nega completamente il ruolo del gusto, risultando arida.

Bazin innestò questo suo discorso in una più ampia riflessione collettiva sulla cosiddetta politica degli autori, affermata proprio dai critici (alcuni diventati poi anche autori) fondatori dei Cahiers. A noi può tornare comodo perché ogni volta che si parla di critica, il mondo videoludico sembra annaspare, come se gli mancassero dei riferimenti culturali da cui attingere. Eppure è facile riconoscere entrambe le tendenze in moltissimi dei testi critici che affollano siti e pubblicazioni specializzate, che oscillano tra la pretesa di schematizzazione del valore del videogioco entro determinati confini oggettivi, stabiliti usando una griglia di valutazione ormai completamente inadeguata allo scopo (quella basata sul pantheon: grafica, sonoro, giocabilità, longevità) e la voglia dei critici di ignorare l’opera di partenza, scrivendo dei testi egotici ed egoriferiti.

Il fischio della storiella di cui sopra ha senso solo perché prima c’è stato l’atto poetico. Inoltre ha valore nel momento in cui chi sta intorno al critico improvvisato, poeta compreso, gliene dà uno. Quindi ha importanza nel momento in cui a chi ha fischiato viene riconosciuto un certo ruolo sociale. La forza (o la debolezza) del testo critico nasce dal dialogo costante tra il critico e i suoi fruitori di riferimento, che vanno a corrispondere ai fruitori, o ai potenziali fruitori dell’opera stessa, quelli per cui viene scritto e di cui abbraccia in un certo senso i valori, anche e soprattutto lì dove prova a indirizzarli.

Difficile dire cosa dovrebbe essere la critica e che competenze dovrebbe avere un critico, visto che il concetto stesso è cambiato numerose volte nel corso della storia della cultura umana. Nondimeno è necessaria una base di partenza riconoscibile, per quanto non assoluta, così da superare la piaga dell’autoreferenzialità ed entrare nel territorio della consapevolezza. Il regista francese Francois Truffaut ebbe a dire della critica cinematografica USA: «Chiunque può diventare critico cinematografico; al candidato non si chiederà che un decimo delle conoscenze richieste a un critico letterario, musicale o d’arte. Un regista, oggi, deve accettare l’idea che il suo lavoro potrà essere giudicato anche da qualcuno che magari non avrà mai visto un film di Murnau».

Se volessimo adattare le sue sferzanti parole alla critica videoludica, potremmo scrivere, senza paura di dire il falso:  «Chiunque può diventare critico videoludico; al candidato non si chiederà che un decimo delle conoscenze richieste a un critico cinematografico e un decimo delle conoscenze di un decimo delle conoscenze richieste a un critico letterario, musicale o d’arte. Uno sviluppatore, oggi, deve accettare l’idea che il suo lavoro potrà essere giudicato anche da qualcuno che magari non avrà mai sentito parlare di Atari.» Cresciuto come critico sui Cahiers du cinéma, Truffaut ha più volte e in più fasi discusso la figura del critico cinematografico, riconoscendogli un ruolo fondamentale per lo sviluppo del cinema. Ad esempio nel 1955 scrisse l’articolo, “I sette peccati capitali della critica”, pubblicato sulla rivista “Arts”, in cui elencava quelli che secondo lui erano i difetti dei critici cinematografici francesi, che possiamo riassumere in: scarsa conoscenza della storia del cinema, sciovinismo, presunzione e mancanza di immaginazione. Anni più tardi, mostrerà però un maggiore disincanto, riconoscendo nella critica un solo, grosso limite, che è quello di non avere alcun potere sul pubblico di massa, ossia di non riuscire a indirizzarlo verso la fruizione di certi film.

In effetti la figura del critico tout court negli ultimi decenni è stata marginalizzata al punto che alcuni sono arrivati a cantarne la morte o, addirittura, l’estinzione, accelerata da quella che possiamo definire una diffusione incontrollata della funzione critica attraverso la rete. Paradossale, ma non di meno indicativo, il fatto che di tutto questo dibattito nella discussione odierna sulla critica videoludica non traspaia praticamente nulla, pur essendo molte delle prese di posizione dei lettori rispetto alla figura del critico derivate proprio da quella che appare essere una forma di sfiducia storica, non certo afferente alla sola industria dei videogiochi.

Nonostante l’industria dei videogiochi abbia ormai compiuto cinquant’anni, ancora non siamo riusciti a distinguere i critici dai teorici e a dare non tanto una definizione generale, quanto delle coordinate più precise sul ruolo della critica nel settore. Eppure all’alba dello stesso la funzione della prima stampa specializzata era chiarissima, tanto da aver contribuito in modo determinante alla diffusione della cultura videoludica grazie a una divulgazione molto diretta e, in un certo senso, artigianale.

Non sconvolge che i primi critici, fondamentalmente dei ragazzi, abbiano impostato il loro lavoro partendo dai dati più evidenti forniti dai videogiochi, considerando anche i limiti di molti di questi ultimi in termini strettamente funzionali. Ad esempio parlare di “giocabilità” aveva senso in un mondo fatto di interfacce spesso poco comprensibili e dalle funzioni oscure o di risposte anti intuitive degli avatar agli input dei giocatori, così come non era completamente folle giudicare la “grafica” in quanto tale, lì dove i videogiochi erano frequentemente delle opere personali, fatte da singole persone, costrette a volte a crearsi i propri strumenti per disegnare gli sprite. C’era effettivamente chi era più e chi era meno bravo nel curare i vari aspetti dello sviluppo, che aveva ancora modalità e tempistiche umane. Il critico svolgeva quindi la funzione di ponte tra il giocatore e lo sviluppatore. Poteva farlo perché la voglia tra le parti di incontrarsi era tanta e il dialogo costante. Certo, c’era una grossa ingenuità di fondo e la comprensione del medium era ancora agli inizi, ma si procedeva inevitabilmente a braccio.

Il problema è che da lì ci si è mossi poco e male e, anzi, alcuni degli aspetti più deleteri della figura del critico, come quello di presentarsi come un “super giocatore”, ossia uno che, avendo accesso anticipato a molti giochi può distinguere il bello dal brutto, quindi consigliare o sconsigliare l’acquisto, si sono in un certo senso incancreniti, soprattutto lì dove, venuti meno i contatti diretti non mediati con gli sviluppatori, gli editori si sono maggiormente strutturati e hanno preso un ruolo preminente nei rapporti di potere che poi sfociano nell’atto critico, con quest’ultimo che ha assunto una funzione terribilmente stitica nel meccanismo economico che regola il mercato dei videogiochi, ossia semplicemente quella di andare a contribuire alla media voto.

A questo punto sarebbe interessante riflettere anche sul ruolo del videogiocatore nella definizione della funzione critica e di come molti in realtà non chiedano più del fischio di cui sopra, limitandosi a pretendere che la critica assecondi il sentimento delle masse verso i singoli videogiochi, senza la necessità di cambiare o affinare gli strumenti utilizzati per descrivere gli stessi. Sarebbe anche interessante considerare la trasformazione di molti critici in imbonitori da streaming lì dove, grazie all’affermarsi di piattaforme come Twitch, il visivo è subentrato nel discorso andando a creare delle dinamiche simili a quelle che si ebbero quando i critici d’arte, cinematografici e letterari iniziarono ad apparire in televisione. Ma il discorso devierebbe troppo dal suo nucleo originale. L’idea è che è il critico videoludico trovi una sua dimensione storica e inizi a concepirsi in modo diverso, assumendosi la responsabilità di guardare con occhio nuovo all’evoluzione del medium, così da poterlo inquadrare in un contesto più ampio, lì dove ormai una certa impostazione appare completamente inadeguata a renderne la complessità.  


 Articolo apparso originariamente su Frequenza Critica

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